Quando di computer non si parlava neppure nei romanzi di fantascienza e le stampanti erano grosse macchine fatte di ferro, piombo e inchiostro, Napoli deteneva un record che la collocava al primo posto in Italia: era infatti la città col maggior numero di tipografie nonché di giornali, riviste e libri pubblicati ogni anno. Erano 113 le stamperie, 2500 gli addetti, 400 i titoli prodotti. Un primato forse poco conosciuto, ma tra i più significativi perché si ricollegava direttamente allo stato di avanzamento culturale della società in un periodo storico in cui l’istruzione era ancora appannaggio di una fascia ristretta della popolazione.
Era l’anno 1860, nodo cruciale per il Mezzogiorno e per la storia del nostro Paese, l’anno del plebiscito, della fine del Regno di Napoli, dell’annessione dei territori meridionali al Regno d’Italia, che sarebbe nato ufficialmente l’anno successivo. E Napoli, a dispetto del racconto - che comunemente si fa - di un Sud arretrato, era tutt’altro che indietro rispetto a tutte altre città italiane, soprattutto dal punto di vista culturale. Tanti primati come quello delle arti grafiche (ma anche del numero di teatri e dei conservatori musicali) ne erano testimonianza.
Oggi il fascino di quell’antica tradizione fatta di sapiente manualità, di dita sporcate dall’inchiostro, di odori e rumori di ingranaggi che si muovono per dar vita alla carta bianca si è perso nell’efficienza della tecnologia e nella perfezione del tratto computerizzato. Napoli tuttavia continua a fare onore alla sua storia ospitando realtà importantissime del settore tra cui storiche botteghe che ancora oggi conservano nei propri locali i macchinari di un tempo.